Elias Portolu

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cop.aspxPubblicato per la prima volta nel 1900, Elias Portolu è, dal punto di vista stilistico, romanzo ingenuo, adolescenziale. Le frasi sono semplici, con frequenti ripetizioni. L’aggettivo ‘puro’ ricorre puntualmente. Ma da qui si può partire.

La purezza è tale alla nascita oppure può essere conquistata? L’interesse della scrittrice sembra imperniarsi attorno questo enigma filosofico. Per questo il vero tema del romanzo è la centratura, il trovare equilibrio, un punto di vista più ampio e fermo, non soggetto ai cambi climatici dell’animo umano.

Il romanzo si apre col rientro in famiglia del giovane Elias Portolu, che ha scontato una pena “nel continente”. Siamo in una famiglia agropastorale nuorese di fine ottocento e peculiari sono gli usi e i costumi che la Deledda riporta con un tentativo di precisione pittorica che affinerà col tempo. L’italiano non è lingua madre per la scrittrice e il suo lavoro si svolge nel pieno dibattito tra gli intellettuali sardi circa l’impraticabilità della lingua italiana di tradurre lo spirito della Sardegna, custodito dalla sua lingua, nei suoi ritmi e suoni. In alcune lettere la Deledda afferma di sentire che non padroneggerà mai definitivamente la lingua italiana. Ma in questo sforzo, anche, si deve cercare la fonte del progressivo raffinarsi del suo stile.

Se Elias Portolu è romanzo acerbo nello stile e nel dispiegarsi dei suoi temi, si pone però già nella più alta maturità che si possa concepire per il tema centrale e portante, e che non è costituito tanto dalla lotta tra bene e male, come può apparire superficialmente, ma dall’equilibrio tra i due, che nasce da una prospettiva più alta. Come un uccello preso al laccio da un cacciatore di frodo, Elias Portolu è continuamente sopraffatto da pulsioni appassionate e viscerali. Non a caso la Deledda fa fare al padre del protagonista continui riferimenti ad animali prede e animali predatori, a tordi e agnelli da una parte e aquile e leoni dall’altra, per indicare come deve essere un vero uomo, un Sardo.

Ma è uomo colui che non si interroga, non sente moti del cuore, non conosce lacrime? Con la ragione Elias supera la vergogna di piangere considerando tra sé che piangere “fa star bene” e impedisce di impazzire. E i suoi sforzi per non impazzire di dolore, per mantenersi puro, per fare la cosa più giusta lo porteranno a una feroce intima lotta in cui nessuna parte può rivelarsi più forte: né l’istinto né la volontà, e dove l’unico timone è la comprensione. Non Dio, non quel San Franzischeddu a cui tutta la famiglia è devotissima e in cui Elias si rifugia nei momenti più bui. Dio è un’ancora, la direzione quotidiana invece è data dal pensiero, dal distillato di esperienze vissute e immaginate. La ragione, quando non si conosca il quadro completo – che solo un punto di vista superumano può avere – non è comunque immune da dubbi.

L’esperienza in carcere ha fatto maturare il giovane pastore, lo ha portato una spanna più in là dei suoi compaesani, gli ha fatto conoscere nuove genti, nuovi luoghi e modi di vivere. Ma è solo l’inizio, perché il carcere in realtà lo ha reso fragile, ha esposto i suoi nervi. Al ritorno nel paese barbaricino Elias si innamora appassionatamente – ricambiato – di Maddalena, ma lei è promessa sposa al fratello: l’amore è proibito. Anche oggi avvertiamo la portata del divieto di questo amore, a quei tempi era enorme. Per fuggire a questa tentazione e a tutte quelle che conseguiranno – Maddalena avrà da Elias un figlio che lui non potrà riconoscere e per cui si struggerà di tenerezza e di gelosia – Elias escogita mille stratagemmi, vuole evitare di dannare la sua anima e allo stesso tempo vuole godere almeno della vista della sua amata. E’ Ulisse che si fa legare all’albero della nave per non cadere vittima delle sirene e poter allo stesso tempo ascoltare il loro canto.  La prova è quasi oltre le umane capacità di entrambi, entrambi infine vinceranno. Forse rimane loro il rimpianto di essere fuggiti di fronte alla perfida sublime opportunità di diventare prede fino in fondo, d’abbandonarsi all’oblio? La morte infatti risolve tutto. E’ passaggio, il varco di una soglia che si affaccia su un panorama che si allarga alla vista. La fuga d’altronde è solo un rimandare, perché la morte non si può fuggire. E solo di fronte alla morte Elias trova pace: inginocchiato di fronte al corpo senza vita di suo figlio, si interroga su cosa sia, questa morte, di cosa sia fatta. E di colpo sente di poterla seguire, anche in vita, come se fosse un filo che attraverso l’amore continua a collegarci tutti.

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Trasmutazione

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Oggi farò qualcosa di insolito: non leggo un libro, leggo un quadro.

Trasmutazione” di Alice Piazza11043365_1094714143875581_8787982000137810598_o

L’ispirazione gli artisti la conoscono bene ma si sono mai fermati a parlare di lei? Con lei? Chi sei, ispirazione, Musa che guidi i miei passi, che accendi le mie emozioni?

Alice Piazza lo fa, chiaramente. I suoi dipinti sono frutto dello sforzo di portare all’umano ciò che umano non è: sforzo sovrumano, quindi. E ciò che è oltre l’umano è sacro. I quadri di Alice hanno per tema il sacro. Non il sacro tradizionale, quello delle religioni. Qui emerge un sacro universale, un mistero di fronte al quale ci si inchina ma non si può fuggire: è un lampo d’intuizione che squarcia l’ignoto lasciandoci attoniti.

“Trasmutazione” ha elementi d’opera iniziatica. I lampi di luce sullo sfondo in alto compongono un’enigmatica scritta, un codice davanti al quale meditare, come se l’Artista abbia voluto inserire un titolo intraducibile per la nostra mente. L’albero simboleggia il ponte tra terra e cielo, tra la dimensione materiale e quella spirituale. E’ l’essere incarnato che affonda le sue radici in questa dimensione mentre tende i suoi rami verso lo spazio da cui proviene la sua essenza.

Tra le linee nere incisive che compongono l’albero e la luce a tratti abbagliante dello sfondo nasce il conflitto, l’universo interiore contro quello esteriore: un’ombra scura che si staglia contro un oceano prismatico, che ondeggia, vibra, scuote, travolge.

Tra le spire che formano il tronco, un essere intrappolato, inquietantemente simile a un feto: il bambino interiore, ancora cieco.

Un lungo brivido allora prende le viscere e non ne vuole sapere di staccarsi dal cuore.

Alice Piazza partecipa al Concorso “La quadrata” della Galleria d’arte a Livorno “Il Melograno” con l’opera “Divenire”. Per votarla basta andare sul sito e cliccare il pulsante “mi piace“ con simbolo Facebook accanto alla fotografia dell’opera oppure cliccare sulle stelline accanto alla fotografia dell’opera sul sito http://www.concorsiarte.it http://www.concorsiarte.it/laquadrata/2015-alice-piazza/

Là sotto qualcosa

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La penna di Marisa Miritello è un’arma spietata contro Brando Brandolini, ex magistrato ridottosi a indagare di nascosto dalla sua posizione di direttore del cimitero di J.

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Canzonature a tutto spiano a cominciare dai nomi: impietoso quello del protagonista; succinto all’eccesso, asceso al simbolismo monolettera quello del paesino dove è ambientata l’azione. Sì, perché J non è un’abbreviazione, è proprio il nome per intero. Canzonature sono anche le allegre pennellate con cui l’Autrice dipinge il carattere dei personaggi. Mario è una specie di Catarella alla Montalbano, gli altri due aiutanti del cimitero sono uno troppo intellettuale e l’altro troppo catatonico, e riescono comunque a litigare tutti insieme. Brando è un riflessivo, anzi un rimuginatore senz’argini che trapunta deduzioni e intuizioni di pensieri più terragni dedicati ai sensi. Brando è preoccupato per se stesso ma la sua autoironia spinta non ci fa prendere sul serio le sue paure. Eppure a J sta succedendo qualcosa di spaventoso, che sale dal più profondo delle viscere e ha il nome più temuto nei secoli dall’umanità. Ed è qui che l’ironia rivela tutta la sua potenza guaritrice. Il caso delle tombe violate e delle donne scomparse si risolve tra un brivido e una risata. In alcuni dialoghi l’arte dell’improvvisazione teatrale prende la mano sfilacciandoli un po’, ma di sicuro questo è un giallo ben costruito e uno dei libri più freschi e divertenti che io abbia mai letto ultimamente.
Merita un’indagine più approfondita verso le sue radici, alla nascita di Brando Brandolini nel precedente Tempi Morti.

Marisa Miritello, Là sotto qualcosa. Eclissi Editrice 2013

 

Abbaiare stanca

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ImageSi chiama semplicemente “Il Cane”, lui, per capriccio di una peste di bambina prepotente e umorale. Per fortuna l’amico cane Ienoso gli spiega che questo è normale e non bisogna farne una colpa ai bambini: sono confusi, tutti i cuccioli lo sono ma i bambini crescono più lentamente, e mentre i cani diventano adulti, i bambini rimangono tali.
In questo racconto delizioso, Pennac dipinge ritratti indimenticabili di cani in tutta la loro curiosità, allegria, intelligenza e solidarietà ma soprattutto nella loro grande capacità di soffrire intensamente, di solito per colpa di noi umani. I gatti ci sono proposti in una piccola rappresentanza che vive, guarda caso, nel cimitero dei cani: gli viene finalmente riconosciuto il ruolo di guardiani delle cose dello spirito, forse per via della loro molle maestosità e di quell’aria distaccata che li pone al di sopra delle quisquilie quotidiane.
Gli animali, i cani in particolare, sono responsabili di un grande compito: l’educazione dei bambini. Ma ancor di più di quella degli adulti.
Peccato che nella realtà i cani non siano capaci di vendette come quella che Il Cane compie ai danni della famiglia che lo abbandona. Ma d’altronde, si tratta di un’azione pressoché inutile, come tutte le vendette. Ciò che veramente funziona, tra le pagine come nella realtà, sono l’amore e il rispetto reciproci.

Daniel Pennac, Abbaiare stanca. 1982

 

L’amore altrove

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L’amore che arriva inaspettato, senza rispettare nessuna regola… L’amore altrove, appunto, un altrove non previsto.

Varrebbe la pena di chiedersi: quel qualcosa che arriva sul binario di regole e convenzioni è proprio amore? Chiedersi perché l’amore da sempre è stato dipinto tormentato e ostacolato, a sottolinearne la natura anarchica, imprevedibile, libera, che risponde solo al proprio Sé più autentico.

Questo amore incontra immancabilmente la reazione del Sistema: secolari impalcature che tremano, che minacciano di rovinare addosso a chi osa amare fuori dagli schemi.

Un giorno Eva si innamora di un’altra donna. Non era previsto, non era nemmeno voluto: proprio questo ne sottolinea la sua forza di cosa viva, di germoglio che buca il cemento.

Eva però è già fidanzata: con un uomo. Ma sarebbe meglio dire: con un robot, perché è solo con una serie di programmi che Marco risponde alla confessione di Eva. Niente Sé autentico, qui, solo le urla sguaiate del Sistema che reagisce perché si vede minacciato. Senza rendersi conto della grande occasione di crescita che l’Amore offre anche a chi, nel quadro asfittico della normalità, fa la parte del “tradito”.

In questo breve racconto, gli uomini ci fanno una gran brutta figura, l’ennesima. Peccato. Sarebbe bello poterne leggere gli sviluppi.

Brava Lidia Borghi a ritrarre l’amore lesbico con una drammaticità che non si trincera dietro lo stereotipo dell’orientamento sessuale unico e immutabile.

Lidia Borghi, L’amore altrove. Selezione Concorso Letterario 5 Giornate Lesbiche 2007

si può leggere qui

Saltatempo

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8 set 2011, 5:39 p.

Fedele alla sua tradizione, Benni redige un romanzo corale con tutti gli ingredienti che gli sono cari: la gioventù, la magia, l’amore e la lotta politica. Però – a differenza degli altri suoi godibilissimi lavori – qui corre, corre, parla e straparla, non ci fa prendere fiato e non si sofferma sui particolari. Il risultato è una sorvolazione aerea  quindi superficiale di una storia che si suppone abbastanza autobiografica, che copre un ventennio fino a giungere alla strage di piazza Fontana. Un paese dell’Emilia Romagna e le sue inevitabili trasformazioni dettate dal mostro del progresso, uno gnomo del bosco saggio e burlone, il bene e il male in antitesi, chiari e riconoscibili come la destra e la sinistra. Peccato che quando si lascia la gioventù si vede che lo spartiacque non è poi così profondo, e invece Benni, a cui piace confondere sogno e realtà, questo sembra non averlo capito. Si chiude il libro, dopo aver fatto lo sforzo di arrivare alla fine – dopotutto Benni scrive bene, è stato facile illudersi che a un certo punto la strada si facesse più interessante – senza aver capito fino in fondo chi è il protagonista, e con la sensazione di aver incontrato una schiera di sagome di cartone.

Stefano Benni, Saltatempo. Feltrinelli

Il Cappotto / Il Naso

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15 ago 2011, 6:34 m.

Due piccoli capolavori. L’aria nordica dà struttura a Il Cappotto, che si snoda come una fiaba classica, con protagonista un essere insignificante, un omuncolo che nessuno vede, che sembra essere nato così com’è, seduto alla sua scrivania a copiare, copiare copiare. E’ facile prendersi gioco di lui, ridere del suo cappotto logoro, Akakij Akakievic non oppone alcuna resistenza, nemmeno se ne accorge, solo se gli scherzi si fanno troppo pesanti solleva la testa e con disarmante innocenza canina chiede: “Perché mi fate del male?” E come un personaggio favolistico Akakij Akakievic vive di niente, si accontenta di meno e gioisce solamente del suo lavoro, delle sue lettere da copiare. Ma… c’è sempre un ma, e qui in agguato c’è il miraggio di un nuovo cappotto. Come questi ingredienti poverissimi possano trasformarsi in capolavoro è alchimia pura. Nemmeno il finale tradisce lo spirito da favola, quando a questa storia fatta di momenti quotidiani e banali si sovrappone il gusto forte del soprannaturale.

Il Naso è invece un esempio di sperimentazione letteraria audace e persino disorientante, che sovverte le regole naturali e ci porta in quel mondo dell’assurdo che potremmo accostare a quello di Alice e del suo Paese delle Meraviglie. Il protagonista de Il Naso somiglia infatti un po’ al Coniglio Bianco, come lui è un impiegato mediamente importante tutto compreso di sé, che ci appare ridicolo nelle sue preoccupazioni. E quasi quasi si fa il tifo per il suo naso: che se ne scappi e si faccia una vita sua, di certo molto più interessante di quella del suo (ex) padrone.

Guerra e pace

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31 lug 2011, 7:16 p.

Di Guerra e Pace ciò che più mi commuove è l’amore di Tolstoj per la vita e la sua gente. Ogni volta che ci presenta un personaggio lo fa con un tale affetto che è difficile non rimanerne subito affascinati. Specialmente mi colpiscono certe descrizioni che superano lo stereotipo della bellezza: si legge, per esempio, di una principessina: “il bel labbruzzo sormontato da una leggera peluria”, e di un soldato: “le belle, piccole mani”. Tolstoj è autore che non ha pudore a presentare senza reticenze la bellezza maschile, né pone particolare enfasi su quella femminile: entrambe sono degne di ammirazione, e provengono, si intuisce, più dalla stessa meraviglia per la vita che da una presunta oggettività, e questa meraviglia introduce il Tolstoj spirituale, la cui benevolenza verso i suoi personaggi, nobili o servi che siano, ce lo rivelano pieno di gratitudine per il mondo e di compassione per le miserie umane.

Sembra quasi di vivere l’azione in tempo reale, tanto sono minuziose le descrizioni. Di Natascia fuggiasca da una Mosca in fiamme che non può dormire perché sente i gemiti terribili di un soldato ferito, che si alza nella notte per raggiungere il principe Rostov, anche lui ferito e ricoverato in una stanza di fortuna, vediamo il piede snello e flessuoso che indugia nervoso fuori dalle coperte, sentiamo i suoi richiami sottovoce alla madre e alla sorella per capire se siano sveglie, e quindi assistiamo alla sua corsa “da gattino” fino alla porta, mentre su tutte le pareti rimbomba un suono forte: il suo cuore “gelato di paura e d’amore”.

Semmai si possa rimproverare qualcosa a Tolstoj, è forse d’aver congelato in un’aura favolistica le sue creature, i cui sentimenti ci appaiono sempre puri e fanciulleschi, atteggiati a continuo stupore, per cui tutto il romanzo è permeato da un alone di romanticismo mistico che risulterebbe troppo mellifluo se le vicende narrate non fossero così vivide, che si tratti di guerra o di intrighi amorosi.

Meravigliosa la similitudine tra la Mosca svuotata all’arrivo di Napoleone e l’alveare privo della regina, nella lunga descrizione. E straordinaria soprattutto la capacità di questo autore di ritrarre l’anima, specialmente nei momenti di coscienza alterata. Ne è esempio il delirio del principe Rostov ferito gravemente sul campo di battaglia, che sentendo sopraggiungere la morte s’accende di amore divino per i suoi simili, e il ritmo altalenante della sua coscienza che affonda continuamente in uno stato di torpore per riemergerne ogni volta con nuove illuminanti intuizioni.

Lev Tolstoj, Guerra e Pace, 1865-1869

Quando tutto tace

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26 lug, 7:28 p.

Se la mia vita mi sembra impalpabile come un sogno, se so di esistere in tutti quei luoghi che il mio pensiero è capace di immaginare, se qualcosa di indefinito e di remoto mi suggerisce che esisto anche laddove non sono più in grado di immaginare, ciò che immagino esiste davvero? Questa è la domanda che ogni creatore di vite fittizie potrebbe farsi. Dice la leggenda che Michelangelo si accanì sul suo Mosé appena scolpito perché prendesse vita e gli parlasse. E Pirandello, nei “Sei personaggi” scrive che di notte i personaggi lo tormentavano con le loro richieste. Personaggi che sanno di essere tali, vivi solo dentro una rappresentazione, perciò finti, eppure esigenti: esigono che la loro storia sia narrata. Ma questo certamente non può bastare, perché se un giorno un personaggio veramente prendesse coscienza di sé, perché dovrebbe lasciare che sia un altro a raccontarlo, a mettergli in bocca parole, a esprimersi per lui?

Succede questo in “Quando tutto tace.” E succede in un modo brutale. De Roma è un eccellente narratore, in grado di usare la parola in maniera raffinata, evocativa, profondamente colta e intelligente. C’è una storia, un personaggio che ha tutte le carte in regola per far arrivare il lettore fino alla fine del libro. La sua storia è interessante, tragica, attuale… e sta per terminare. Quando a un tratto…

De Roma prende le regole del gioco e le esaspera, le ingigantisce, le ipersemplifica fino a farle diventare mostruose. L’imprevisto che deve far andare avanti la storia si ribella, diventa imprevisto anche tecnico, reale, fino alle estreme conseguenze, fino a che, appunto, i personaggi vengono a bussare alle pagine del libro, si scagliano contro l’autore, rifiutano di essere manipolati, raccontati dalle parole e dall’onnipotenza altrui, eppure senza questa sono persi. Siamo in presenza di un metaromanzo, di un autore in crisi che indugia sul suo mestiere perché forse lo ha annoiato, perché non ci crede più? Il rischio di impantanarsi in riflessioni sull’arte che interessano solo gli addetti ai lavori (e neanche quelli, spesso), è forte. E i personaggi lo sanno. Implorano il lettore di non abbandonarli.

Il lettore nel frattempo è caduto in un baratro, il libro che stava leggendo gli si è sfasciato tra le mani, la storia non esiste più, anche la scrittura ne risente e zoppica: il cielo di carta è ormai stato inesorabilmente strappato. Come si fa allora a credere ancora alla finzione? Bisogna che finzione non sia più, bisogna che i personaggi siano quel che sono: nient’altro che artificio, racchiusi in un mondo fittizio in cui nulla esiste davvero, non la casa in cui abitano, e quindi che senso hanno i mobili e le descrizioni, che senso hanno davvero le vite raccontate.

In questo momento di profonda crisi, Alessandro De Roma decide di non risparmiarsi: dalle pagine del suo romanzo scivola dentro la finzione, si lascia maltrattare dai suoi personaggi, gli affida il compito di criticarlo senza pietà, nel suo mestiere e persino nel suo aspetto fisico, e il lettore lo osserva riflettersi come in uno specchio crudele. Diciamolo: questo sì che è un libro coraggioso!

Il lettore si riflette nel libro insieme al suo autore, si rivede nell’Italia slabbrata e desolante dell’ultimo trentennio, quando le tv private entrano nelle case per controllare le nostre vite dal luogo più intimo e nel subconscio collettivo sorge e si rafforza la convinzione che per esistere davvero dobbiamo stare dall’altra parte dello schermo, dentro lo specchio. E tutto precipita: la realtà si riversa a forza nella finzione, abbiamo il Grande Fratello, i Reality Show. Perché esistere nella televisione significa essere ascoltati, guardati. Siamo diventati come personaggi di un racconto, ci sembra di non avere senso se non c’è un pubblico che dia consistenza e legittimità alla nostra vita. Qui sta la profonda valenza filosofica e spirituale di questo romanzo, De Roma non ha fatto altro che raccontarci ciò che sta succedendo a noi. Nel rendere trasparenti i meccanismi della finzione fino a farli saltare, ci dà una forte scossa: magari così riusciremo a svegliarci, e smettere di essere personaggi nella mente di qualcun altro.

Alessandro De Roma, Quando tutto tace. Bompiani 2011

Il senso di Smilla per la neve

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10 lug, 9:50 p.

Romanzo difficile. Difficile, anzi difficilissimo l’ambiente che descrive: la Groenlandia e il suo mare coperto di ghiaccio. Difficile la sua protagonista: una donna con la capacità di sopravvivenza di chi è nato e cresciuto nella terra più inospitale del mondo ma ha anche in sé il sangue razionale e calcolatore del popolo danese.

Un ragazzino cade da un tetto a Copenaghen. Vogliono spacciarlo per incidente ma Smilla, esperta di ghiaccio, capisce dalle orme sulla neve che il ragazzo si è buttato. Perché? Da cosa scappava? Comincia da qui un intreccio complesso, anche dal punto di vista stilistico oltre che della trama in sé. Le domande si susseguono, quando si crede di aver capito qualcosa ecco che le certezze si infrangono, proprio come quelle di Smilla, che non sbaglia mai, che non cede mai, tranne di fronte all’amore: solo questo la rende debole e la sua delusione è quella di un bambino che ha scoperto che i propri genitori mentono. Altrimenti, questa donna d’acciaio (ovvero, il suo Autore) è piena di certezze spesso in contrasto col comune sentire che le vengono da una mirabile capacità d’analisi psicologica.

Periodi che si aprono senza soggetto, e solo dopo un po’ capiamo di che cosa si sta parlando. Formule matematiche, teorie geofisiche, le foto africane del verme della Nuova Guinea, gigantesco parassita che da buon ospite non uccide le sue vittime, una nave gigantesca armata per affrontare la più dura rotta verso il nord. Pezzi di un puzzle che Hoeg getta sul tavolo sapientemente. Un lettore come me, con poche nozioni scientifiche e nessuna sulla navigazione, annaspa fra tutta questa disinvolta esposizione di sapere. Eppure allo stesso tempo è intrigato: la lettura diventa una sfida. Questa è la formula vincente di Hoeg: alla fine del libro, dopo essere stato provocato, punzecchiato, preso in tranello e infine condotto per mano alla luce del mistero, il lettore si sente un po’ più intelligente.

“Se devi aspettare a lungo, devi impadronirti dell’attesa per evitare che diventi distruttiva. Se la lasci fare, la coscienza vaga, si destano l’angoscia e l’inquietudine, subentra la depressione, vieni trascinato verso il basso”. Bisogna crederci, se a scriverlo è chi vive in un paese ad altissimo tasso di suicidi.

Peter Hoeg, Il senso di Smilla per la neve. Copenaghen 1992